Antico domino in osso ed ebano, in scatola con coperchio scorrevole, circa metà ‘800.

Sera, interno, Inghilterra vittoriana. In una stanza illuminata delle lampade a petrolio le tende pesanti sono tirate. Il fuoco crepita nel camino e l’aria profuma di tabacco da pipa, c’è anche un vago sentore di cera d’api, proveniente dalle candele accese sul tavolino centrale. Attorno a quel tavolo, quattro persone siedono immerse nel silenzio teso che precede ogni mossa. Un uomo anziano con basette grigie tamburella le dita sulla superficie in mogano, facendo tintinnare distrattamente un bicchiere di brandy. Accanto a lui, una giovane donna stringe tra le dita un ventaglio di seta, che agita lentamente come se quel gesto potesse dissipare la tensione nell’aria. Le tessere del domino sono disposte ordinatamente accanto alla scatola in legno: ogni tassello ha una superficie liscia e fredda al tatto, in osso, levigata dal tempo e dall’uso. Il lato posteriore è in pregiato legno d’ebano. “La tua mossa…” sussurra l’uomo anziano con un lieve sorriso, mentre sposta una tessera sul tavolo. Gli altri giocatori trattengono il fiato: ogni mossa è un enigma da risolvere. In quell’atmosfera intima, tra i riflessi ambrati del brandy e il calore del fuoco, il domino non è solo un gioco: è un rito sociale, un modo per osservare i silenzi, per interpretare gli sguardi. Forse, tra quelle tessere, c’è ancora l’eco di quella serata lontana. Un frammento di tempo rimasto incastrato tra l’osso e l’ebano, pronto a riaffiorare ogni volta che si apre la scatola e il primo pezzo scivola sul tavolo.